L’innovazione è forse l’argomento più evergreen, fra tutti quelli che si meritano un punto in Ordine del Giorno nelle riunioni aziendali. Appare circa a metà lista quando il business va forte (“... ma non dobbiamo sederci: bisogna INNOVARE!”), appena prima delle “varie ed eventuali” quando va discretamente (“... ORA è il momento ideale per innovare!”) e, soprattutto, si guadagna una posizione sul podio quando le cose non vanno tanto bene (... la soluzione? I-N-N-O-V-A-R-E!”).
Il termine fa bella mostra di sè anche sulla Carta dei Valori di molte organizzazioni, di solito nella sua versione anglosassone Innovation, che certamente è molto più corporate. Non regge il confronto con Valori fondamentali come Integrity, Passion, Customer, Leadership, Accountability, Respect e Diversity, ma l’innovazione è spesso lì, a ridosso di questi concetti così distintivi per l’80% delle aziende mondiali.
Se ne parla da sempre, ma se ne parla spesso in modo superficiale: non basta scrivere “innovazione” sulla parete all’ingresso dell’azienda, perché questa entri nel DNA aziendale. Non basta nemmeno chiedere ai collaboratori di essere innovativi e di osare di più, perché questi si sentano davvero autorizzati a farlo. Bisogna creare le condizioni giuste, per stimolare le persone ad innovare.
E dunque, quali sono queste condizioni?
Partiamo da un assunto fondamentale: se vogliamo creare una cultura di innovazione, dobbiamo capire ed accettare che innovazione e perfezione non vanno molto d’accordo. Anzi:
"innovazione e perfezione sono quasi incompatibili,
come Superman e Clark Kent:
non si possono vedere mai nella stessa stanza."
La perfezione è statica, è un punto di arrivo, un luogo forse solo teorico, che non prevede cambiamenti. Nel momento in cui ammetto che il mio prodotto/processo potrebbe essere migliorato, sto ammettendo che non è perfetto e apro quindi le porte all’innovazione, che, al contrario, è sempre in divenire, è irrequieta e dinamica. Clark Kent si toglie gli occhiali, indossa il suo pigiama blu e rosso e, cercando di non inciampare nel mantello, spicca il volo.
La storia è piena di esempi di aziende che non hanno compreso quando fosse il momento giusto per “spiccare il volo”:
- Blockbuster: Fondata nel 1985, nel suo momento di massimo splendore, nel 2004, Blockbuster aveva 84.300 dipendenti e oltre 9 mila negozi. Evidentemente questo successo impedì ai leader dell'azienda di comprendere la rivoluzione digitale già in corso, tanto da rifiutare un'offerta di acquisto di 50 milioni di dollari da parte di Netflix nel 2000. Nel 2010 Blockbuster dichiarò bancarotta.
- Polaroid: La storica azienda fu fondata nel 1937 e divenne negli anni sinonimo di "fotografia istantanea". Come nel caso di Blockbuster, Polaroid si adagiò sugli allori di un successo globale e duraturo, miope all'avanzata delle fotografie digitali. La Polaroid Corporation fallì nel 2001 e il brand e relativi asset societari furono venduti. Nel 2017 il marchio fu acquistato dagli azionisti di "Impossible Project", una società fondata nel 2008 e che produceva rullini per Polaroid. Impossible Project fu poi rinominata "Polaroid Originals".
- Nokia: Nata nel 1865 come segheria e cartiera (!), Nokia produsse di tutto, prima di approdare al mercato dei telefoni cellulari e diventando, negli anni '90, quasi un monopolista. Quando internet si diffuse sui cellulari, Nokia ebbe però paura di cambiare e continuò a sviluppare telefoni con il proprio software, sperando unirsi alla corsa verso gli smartphone in un momento successivo. Non fu così: nel 2007 Steve Jobs lanciò il primo iPhone e a poco valse il disperato tentativo di Nokia di restare in sella, abbracciando Windows Mobile. Dopo varie traversie, fusioni e licenziamenti, il marchio Nokia è oggi nuovamente presente sul mercato, con telefoni Android.
I tre esempi citati hanno in comune una caratteristica: i leader di queste grandi aziende pensavano di possedere un prodotto perfetto, che non necessitava di cambiamenti. Si sono seduti e hanno osservato i nuovi trend, come si osserva un temporale estivo sotto una tettoia, aspettando che spiova. Hanno avuto paura di sbagliare e preferito fare di testa loro, non ascoltando gli stimoli del mercato e, senza dubbio, i consigli di alcuni collaboratori.
Da queste storie possiamo trarre alcuni principi generali, validi anche oggi e oggi ancora più urgenti, nel contesto della pandemia di coronavirus che sta cambiando il modo di fare business in tutto il mondo.
Gli elementi da cui partire per creare una cultura dell’innovazione:
- Coinvolgimento delle persone: i leader devono avere l’umiltà (perché spesso di questo si tratta) di ascoltare i collaboratori e i consumatori, ricercando attivamente input da parte di tutti e dando modo alle persone di esprimersi e di proporre innovazioni.
- Accettazione dell’imperfezione: questo è sicuramente un punto più complesso da mettere in atto, specialmente in una società come quella attuale, che ci spinge fin da piccoli alla “performance”, premiando chi vince e penalizzando chi perde. Accettare gli errori commessi in buona fede è però l’unico modo per lasciare aperta la porta all'innovazione. In un contesto che non tollera sbagli è molto difficile creare qualcosa di nuovo, poiché le persone tenderanno a optare per soluzioni sicure, che non rischino di metterle in cattiva luce davanti a colleghi e capi. Quando non si tollera l’errore, si spinge la normalità e, spesso, la mediocrità: ci si accontenta del noleggio di videocassette, delle fotografie istantanee, del vecchio cellulare a conchiglia.
Ci sono aziende che riescono a vivere questi principi? Fortunatamente, sì. Great Place To Work® ne ha premiate 15 lo scorso luglio, partendo da un panel nazionale di 153. Si tratta di organizzazioni che, secondo le opinioni espresse dai loro collaboratori in un questionario online, hanno creato una cultura di ascolto e di tolleranza all'errore. Una cultura che fa sì che l’innovazione sia possibile, a tutti i livelli.
Ecco la classifica completa (per maggiori informazioni clicca qui)
Andiamo a vedere alcune risposte fornite dai collaboratori di queste 15 aziende “Best for Innovation”, confrontandone i risultati con quelli delle rimanenti 138.
I numeri riportati nei grafici rappresentano la percentuale di rispondenti che si sono espressi in modo positivo sull'item.
Come si può vedere, nelle aziende “Best for Innovation” le persone dichiarano di essere ascoltate e coinvolte, con percentuali di risposte favorevoli nettamente più alte delle rimanenti 138 aziende italiane considerate.
Consideriamo ora il secondo punto, quello relativo all’accettazione dell’imperfezione:
Di nuovo, nove rispondenti su 10 nelle aziende “Best for Innovation” dichiarano di vivere in un ambiente che tollera l’errore e che premia l’innovazione, a prescindere dal risultato ottenuto.
Non stupisce dunque che un altro item, "Qui le persone si adattano rapidamente ai cambiamenti necessari al successo dell'organizzazione", ottenga risultati simili: viene riconosciuto come vero dal 91% dei rispondenti “Best for Innovation”, ma solo dal 65% di quelli delle 138 aziende non in classifica.
In conclusione, è chiaro che i leader che riusciranno a trasformare l’innovazione da punto dell’Ordine del Giorno o riga nella Carta dei Valori a concreto elemento della cultura aziendale, vissuto da tutti, saranno quelli che con maggiori probabilità riusciranno a farla diventare la pietra angolare del cambiamento e, in alcuni casi, della sopravvivenza.
Per farcela, dovranno essere coraggiosi ed avere l’umiltà di ascoltare e coinvolgere i loro collaboratori, spingendoli a osare senza timore.
Questo articolo è stato pubblicato sul nr 23 della rivista Rivoluzione Positiva.